Pubblicato da: Storm | 1 novembre 2012

Nuovo Blog.

Questo blog si prende una pausa, ha voglia di crescere, cambiare e sperimentare.
Pertanto vi lascio il link del nuovo blog, nella speranza che qualcuno di voi lo legga 🙂

http://setacciandoilmondo.wordpress.com/

Grazie a tutti 😀

Pubblicato da: Storm | 28 settembre 2012

The way home.

Uno degli interrogativi che mi sono posta più spesso nella vita è “cosa ci è successo”.
In una sera come questa, ove tutto tace preda d’un sonno sfrontato ed instabile, ascolto con nostalgia il canto degli anni trascorsi. Le chiavi di violino s’incastrano nel mio pentagramma spontaneamente, e risuonano svelando risate e sorrisi genuini, come i boccioli a primavera.
I cinque steli tintinnano al cospetto della semplicità trascorsa, al desiderio di mettersi in discussione, di criticare ed essere criticati. Un’ode alla volontà di crescere, fruire e donare, nell’eterno ciclo della vita.
E poi, alla soglia dell’età adulta, ci si sfalda come pollini di soffione e si finisce col divenire apolidi. Radici saltuarie, sparse in tutto il mondo, senza ricordo alcuno del fiore originario.
Che ci è successo è davvero difficile da stabilire, cause e conseguenze si miscelano in un unico impasto per torte, pronto a lievitare nel forno dei ricordi. E nel silenzio, docile e cannibale, il mio pensiero va a tutti coloro che ho lasciato per strada. Coloro che ho perso senza desiderarlo, chi ho ferito inciampando sulle ortiche, chi ho urtato ed amato in silenzio, chi vivo ora e chi vivrò in futuro.
E per me, siete tutti egualmente indimenticabili, desiderabili e saldi al petto. Perché un tipo vi chiamai casa, e la strada di casa non si scorda mai.

Pubblicato da: Storm | 11 agosto 2012

Piccolo spazio pubblicitario.

Mi scuso per aver trascurato il blog, ma gli ultimi mesi hanno visto ogni mia energia convergere alla creazione di quest’opera, ora iscritta al concorso Il Mio Esordio per Feltrinelli.

Trama:

“Una mano tesa, in talune circostanze, è capace di salvare l’esistenza di chi incosciente si smarrisce nell’eterno flusso del vivere. Ed è per non rischiare di venire trascinati nell’oscurità eterna, che è importante munirsi del giusto ausilio e supporto. La vita costituisce un immenso viaggio, capace di contemplare l’alfa e l’omega, circoli viziosi, atteggiamenti acquisiti, mancanza di coscienza reale ed attiva del presente. Eden, creatura cinica e solitaria nonostante la giovane età, si nutre d’infertilità ormai da diversi anni. Tuttavia, la sua situazione si aggrava con la perdita della madre, un evento che la induce all’autoreclusione nelle prigioni dettate da una mente implacabile e glaciale. A seguito di un tentativo di suicidio, viene inserita nel programma di recupero dell’ospedale di Merry-Go-Round, la cittadina di mare ove vive e il cui nome richiama l’eterna giostra della vita. Durante il periodo di segregazione, impara a conoscere se stessa ed i meccanismi del mondo tramite la sua antica compagna di viaggio, Hayley. Apprende così l’arte sacra del vivere a scapito dell’esistere, affronta gli spettri d’un passato eretto su fragili fondamenta, confronta i suoi sintomi con i mali indotti da una vita non sufficientemente amata. Impara a nutrirsi del quotidiano, a celebrarne ogni istante, adottando come spirito guida l’imponente forza del sentimento d’Amore. Durante il viaggio, ove per la prima volta consente al prossimo di affiancarsi a lei, stringe legami stimolanti al suo quieto evolvere e da flebile germoglio, diviene pianta rigogliosa. Una persona completa nelle sue imperfezioni, capace di emanare luce autonoma e di convivere con la grande bestia che ognuno di noi possiede nel cuore. Affida e confida, accetta e perdona, incede per divenire infine, la poiana che da sempre avrebbe desiderato essere.
Trattandosi di un testo a forte contenuto autobiografico, non manca un finale inatteso, conturbante, in grado di coinvolgere non più soltanto Eden, ma tutti coloro che consentono all’indifferenza e al nichilismo di dominare le proprie vite. Nelle ultime pagine dunque, affiora placido un desiderio di salvezza per chi ancora si esime dalla vita, se ne estrania manifestando acidità e chiusura, chi, in buona sostanza, predilige l’assenza alla presenza. Ognuno di noi può disporre di battiti pulsanti e vitali, delle giuste correnti ascensionali, di ali forti ed impavide atte ad affrontare il volo lento ed instabile verso la vita.
Perché a nessuno è impedito il volo, è sufficiente volerlo.”

Ecco il link al quale potete trovarlo: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=811583

Il libro è consultabile gratuitamente se impostate la voce Talent Scout sul vostro profilo, oppure acquistabile. Ma ciò che importa davvero è che leggiate e se possibile, recensiate il libro, sono in attesa di riscontri da lettori esterni.
Grazie a tutti, ogni piccolo contributo è per me fondamentale.

Pubblicato da: Storm | 18 giugno 2012

Pensieri d’un aspirante viaggiatore.

Tuona il cielo, sull’uscio della nuova svolta da inseguire. Volgo lo sguardo alle mie spalle stanche, alle mani dai solchi vitrei, ai piedi dai tagli aguzzi e penso. Rifletto a lungo, continuamente, tra amarillidi che sbocciano ed altri che prematuramente appassiscono. Non riesco ad esimermi dalla redazione d’un bilancio, di un’altalena dalle forti contraddizioni, incerta tra volontà d’evolvere e di preservazione del fragile equilibrio acquisito. Penso a ciò che mancherà, alle soglie che non varcherò più, agli approcci da muovere su terreni ancora inesplorati, privi di segnaletica alcuna. E tremo d’ansia, fremo d’impazienza, di fronte al futuro che scaltro avanza pretese sul mio destino. Sguaino la vista, sfodero l’olfatto, mostro gli artigli ed incedo, fiera del coraggio di apprezzare il mondo dalla prospettiva dell’incerto. E nel rivolgere il mio viso indietro, posso affermare con convinzione che non lascio detriti, ma solo piacevoli embrioni d’Amore a contornare il tracciato finora percorso. E anche se tu, cara Eden, non varcherai il cancello di luce insieme a me, saprò custodirti nel cuore, come il prezioso ricordo del diamante più puro. Perché non importano odio, livore, l’ostentazione di un’indipendenza fittizia, ma solo ciò che, ai fini dello sviluppo del mio spirito, tu hai rappresentato per me. E nella lenta preparazione dell’anima al viaggio da intraprendere, abbraccio ogni positività e affronto a spalle larghe il presente. E chi lo sa, che il soffio vitale del quale tanto vado in cerca, non si nasconda proprio lì, tra le pieghe scaltre dell’avvenire.

Pubblicato da: Storm | 5 marzo 2012

Il giorno in cui scivolasti via.

La lettera che ti avrei già dovuto scrivere.

Non sentirsela, cogliere il lento svanire delle energie. Celare dietro apparente coraggio, una debolezza scostante ed impenetrabile. Aver commesso l’errore di ritenere il cemento sufficiente a seppellire l’arcano dietro la morte. Quella spietata tiranna cui tutti s’inchinano, il polo cui confluiscono lacrime, abiti neri e volti deformi. L’attimo in cui la futilità si estingue, in cui l’appartenenza diviene distanza e l’antico reinvade il presente. Le sbavature di calce e mattone si disgregano al cospetto di urla di dolore, aprendo così un nuovo varco a quei caduti viventi, che ancora s’ostinano alla marcia infinita. A noi, il popolo dei resistenti. A noi, che con sfiducia imbevuta di sangue guardiamo al domani in cerca di risposte. Che affidiamo ad un timido raggio di sole la responsabilità di lambire il nostro cuore, di sedarne i tormenti, d’abituare l’assenza alla frenesia del quotidiano. Noi, gli infaticabili mendicanti di briciole d’avvenire.
Ed è la cessazione impressa dalla morte a regnare, la sua manifestazione in tornado dai fulmini interni, il suo rilasciare scariche letali, la sua condanna suprema in grado di piegare psiche e polmoni. Il suo riferimento, implicito e casuale, quel suo modo d’accostarsi al nostro vissuto per sfiorarlo, e traghettare con sé ciò che di più caro possediamo. L’affetto, il sentimento, l’ardire di vivere. Tutto si estingue e scompare di fronte all’imbrunire della vita. Quel calore tramutato in fetidi toni nerastri, quella gioia colorata che s’azzera in silenzi manovranti. Quella piovra, i cui tentacoli attanagliano ogni muscolo, corrompendone il funzionamento per consacrarlo all’incostanza, all’incoerenza, al peccato dell’errore comune.
E nonostante l’irreversibilità d’un simile processo, ci si aggrappa all’esistenza nella distruzione endemica realizzata dalla bomba peggiore al mondo, dall’attimo letale in grado d’imprimere pesanti marchiature a fuoco. E ci si adatta, per esigenza ordinaria, con facciata glaciale, a convivere con il dolore che ne scaturisce. Ma esso, proprio come un boomerang che docile ritorna alla mano che l’ha scagliato, rientra sempre al giaciglio natale. Lo colpisce, ne riporta in superficie lesioni e sentimenti male assimilati o peggio evitati. Proprio come una pellicola, s’ostina a riprodurre il giorno dell’accaduto, mostrando la quiete d’arti adagiati, un giaciglio accarezzato da fiori, un tragitto su ghiaia a mani strette, gelide e tremanti. Fornisce allo stremato spettatore la chiusura del sipario, una tenda di cemento in grado di sancire limiti ai disperati canti dei vivi. E tutto sfiorisce senza pietà, senza possibilità alcuna di reperire conforto. Ci si affida infine al nulla, con il sostegno del tempo, ristoratore d’umane ferite.
Tuttavia, la rimozione totale è impossibile. Il cuore straziato è ben conscio dell’affluire di sangue infetto, contaminato dall’atrocità d’esistere. Ed è in questa tormenta, nell’apice della caduta, che consento al tuo volto di tornarmi alla mente. Gli occhi azzurro oceano, la capigliatura disordinata e rada, la tua schiena curva, il tuo docile passeggiare tessendo le mie lodi. Il ricordo d’una creatura tormentata quanto me, flagellata dagli eventi d’una vita punitiva, da una spedizione forzata all’afflizione. Lambire le tue mani, riscaldarne il gelo, diviene desiderio frequente d’ogni notte. E quando spira aria ghiacciata nel cielo notturno irradiato da stelle, mi sembra ancora di poter avvertire la tua presenza. Tendo la mano all’aere nella speranza che tu oda il mio grido. Perché da quando non sei, nulla è più appartenenza. Da quando non sei, ho smarrito la gioia di credere in me stessa. L’entusiasmo, le risate tali da strizzare gli occhi, il sorriso di fronte alla torta creata con abile maestria. Tutto di te m’apre il cuore, lo divora come il dolce più prezioso, lo inonda della felicità che per me eri. Non comprendo le ragioni che m’hanno spinta a segregare quest’Amore tanto a fondo da non desiderare neanche la sua nomina, ma è importante che tu realizzi quanto l’assenza abbia disidratato il mio vivere, quanto il tuo incedere dolce e caldo manchi al mio gelido passo. Quanto ogni piatto caldo gustato in tua esclusiva compagnia, m’abbia concesso di credere alla beltà del mondo. Perché nonostante la lenta malattia ci abbia infine divise, non ho mai scordato le grandi lezioni che hai saputo impartirmi. E qui, nell’angolo più lucido ed ordinato del cuore, ricordo ancora le storie che mi narrasti, della timida bambina buona di cuore che un giorno avrebbe conquistato il mondo.

Manchi, nonna, ora più che mai.
Il giorno in cui scivolasti via, io non l’ho mai scordato.

Pubblicato da: Storm | 11 febbraio 2012

Interruzioni.

Interruzioni, frazioni di vita martoriate dal gelo, dalle avversità, dall’incapacità d’adagiarsi nella contemplazione dell’assoluto. Pause di lenta evoluzione, impossibilitate al distaccarsi, al disancorarsi dai detriti d’un animo devastato da flagellanti maree. Quanti secondi, occasioni o pianti sono morti in nome della discontinuità, dell’intervallo d’esistere? In un’esistenza mutevole, ove persino l’inanimato scorre, frequentemente s’attraversano fasi transitorie imprescindibili, che un obbligo superiore suggerisce di fronteggiare. Tuttavia velocità, incuria e frenesia d’avanzare alimentano la scarsa cura che occorre dedicare alla tregua. Se solo arrestassimo la lunga implicita discesa verso l’avvenire, se ingranassimo la prima per goderci gli affanni del mondo, allora forse saremmo in grado di svelare anche i nostri. La neve, quei chicchi gelidi e acuminati costituiscono una variabile costante della traversata. Tuttavia, nella bufera d’esistere, alcuni d’essi divengono invisibili, si annidano sottopelle, tessono reti che come parassiti dissuadono dalla concretezza del creato. Rivelarli, beh, è compito infame affidato all’epistola anonima che mani e cuore s’ostinano a scambiarsi. Cadere ostaggio di sé è un pericolo evitabile. Occorre soltanto prestare ascolto alle urla disperate che, d’ogni sospensione vitale, acutamente s’infrangono sul mondo.

Pubblicato da: Storm | 28 gennaio 2012

Diary – Chuck Palahniuk

“L’ispirazione ha bisogno di malattie, ferite, follia.”

“Ogni cosa che fai rivela la tua mano.”

“La nostra infelicità. E’ questa soppressione della mente razionale, la fonte d’ispirazione. La musa. Il nostro angelo custode. La sofferenza ci permette di abbandonare l’autocontrollo e fa sì che il divino fluisca attraverso di noi.”

“La felicità non ci lascia cicatrici da mostrare. Dalla quiete impariamo così poco.”

“Il compito di un artista è quello di creare l’ordine dal caos. Raccogli dettagli, cerchi un filo conduttore, poi organizzi. Ricavi senso da elementi che non ne hanno. Combini pezzi di qualsiasi cosa. Sposti e riorganizzi. Crei un collage. Un montaggio.”

“Dimenticare il dolore è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancor di più.”

“A volte, per un artista la sofferenza cronica può essere un dono.”

Pubblicato da: Storm | 28 gennaio 2012

Prendere e Dare.

Un cielo frammentato d’astio volge il suo sguardo al cammino intrapreso, restio a concedere quella coltre d’utopica speranza che il mondo tanto reclama. Quasi non ricordasse l’esatta procedura, la combinazione, l’incontro di venti gelidi e caldi la cui comunione di forze produce la sana spirale, la superficie lattea in grado di rigenerare l’universo. Una sosta in bilico, l’ammissione dell’esistenza dell’intricata matassa, delle cause scatenanti, senza alcuna presa di coscienza in merito alla rotta incidente delle due opposte pressioni.
In lontananza, all’angolo dell’infinito ring, si erge minacciosa la nube per eccellenza, deterrente dell’incombenza del passato, del dolore incamerato in una sorgente inestinguibile che ancora lambisce le coste dell’esistere. Indossa guanti purpurei, irti di spine, ondeggia come un volatile carnivoro che ha individuato la sua preda. Il rancore, quella nuvola rossa incauta, infima e subdola che segue i miei passi come un cane fedele, come un randagio la cui unica fonte di nutrimento consta di negatività e aure oscure. Una materia spigolosa, acuminata, che nelle ombre maschera il sangue di colpi inferti. Quand’anche potessi distruggerla, ella, rinfrancata dai miei tentativi rincaserebbe, traghettando con sé nuova ira e rivitalizzato livore. Una vittoria non eterna, impossibilitata a perdurare. Nonostante la volontà, la meticolosità nell’opera di respingimento, di contrasto, essa rivivrebbe, nell’instabile follia d’aghi di rabbia. Un equo baratto, e allo stesso tempo l’infinita truffa.
Una sfida costante, dunque, tra il bianco piumato d’un cielo desideroso di concedere, di regalare al mondo e a se stesso un’altra opportunità, ed il vermiglio del sangue rappreso in un ricordo malsano, sterile, assassino, impossibile da estirpare. Perché non è l’assenza a pesare, né la decisione, ma il ricordo del baratro, dell’istante in cui caddi senza più ritrovarmi. Dell’umiliazione delle risate, instancabili compagne della risalita dal loculo di cemento vivo in cui m’avevi sepolta.
Quale scialuppa potrebbe dunque consentire la riappropriazione del presente? Quale piolo, dell’eterna scalata alla vita, è più facilmente carpibile, afferrabile, atto a costruire il futuro verso il quale affido, in un’ostinata ricerca, ogni mia speranza? O forse il sentiero che prima ritenevo tracciato, ora è irrimediabilmente confuso, miscelato ad una sostanza impossibile da setacciare?
Prendere e dare, cogliere e lasciar scivolare. La fase di transizione, decretata da una conclusione già scritta, da un punto impresso con forte calligrafia, frutto d’anni d’indecisione. E un inchiostro indelebile non può essere rimosso, nemmeno dall’astio d’un rancore inestinguibile. Ciò che è accaduto non è veramente successo, l’opportunità attende lo squarcio che le consentirà la traversata al suolo. E’ questione di secondi, ormai, di pochi battiti. E nell’istante in cui il cielo partorirà la cascata di candidi pistilli bianchi, la nuova nascita potrà avere inizio. Solo allora, l’unico canto che da me udirai, risiederà nell’eterno addio d’un amore mai veramente esistito. Che degno non è, della maiuscola che un tempo gli affidai.


Once you leave there’s no re-entry.

Pubblicato da: Storm | 18 gennaio 2012

Uno Nessuno e Centomila.

“La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.”

“La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.”

“Tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi danno loro.”

“Che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci, non ci siamo intesi affatto.”

Pubblicato da: Storm | 10 gennaio 2012

Singulti nel Vento.

Una pagina di diario, unta, straziata ed impregnata di sangue, ingiallita e divorata dai demoni, volteggia e danza al cospetto del freddo vento che invade le vene del mondo. Una mano timida, affannata e gelida, restia e desiderosa, ne impugna l’estremità. Lo sguardo impresso nelle scanalature, come ultimo desiderio consacrato al ricordo. Le linee astratte che lambiscono il tessuto cartaceo erigono un filare d’aghi, un tracciato irto, reso pungente da stenti ed afflizioni. Se fosse possibile ricostituirne il senso, se la logica potesse rinsaldarne le pareti, esso forse restituirebbe alla mente un moto, intenso ed immutabile, costretto all’arresto, ad una brusca frenata sul tracciato esistenziale condiviso. Se fosse possibile svelarne il tratto calligrafico non si manifesterebbero che nodi, gomitoli d’anima spezzata, devastata da una vita d’odio senza remore. E quale potrebbe essere il messaggio recato dall’effimero vento del passato? Quale sensazione, emozione o frustrazione potrebbe condurre con sé quell’infimo lembo di carta, lacerato dall’incuria del gioco letale condotto nei confronti del proprio esistere? Spaesamento, forse, abbandono alla negligenza incurante dell’abisso, alla segregazione tetra e miserabile della non vita, all’inutilità parassitaria. Soccombendo a nuove fertili pulsazioni, la presa sterile del passato si riduce a pollice ed indice. Le restanti dita, impossibilitate a trattenere un suppellettile morente, regalano al vento il privilegio della vittoria. E così scivoli via, traghettata da quella bora d’aculei gelida e triste che donasti alla mia vita, senza che te ne avessi mai domandato l’usufrutto. Senza aver mai preteso aure color pece, senza mai ambire a ragnatele permanenti. Una pagina morta cede il passo ad una squama febbrile, viva ed ostinata. Ad una volontà d’approdo al futuro, al desiderio di riscoprire le pendici d’una vita a lungo sacrificata. Perché talvolta, abbandonare la presa è indispensabile per riguadagnare la libertà. E’ impossibile adire al futuro, se il vestito giace incagliato alla maniglia del passato. Con l’angustia nel cuore, e la sensazione che presto l’irreparabile potrebbe compiersi, come ultima ferita ad affliggere le ceneri di ciò che resta, riprendo ad imprimere frazioni estatiche sul diario della vita. Nella speranza, remota ed utopica, che il futuro non obbligherà più quella mano, a reciderne altre pagine.

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